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maniera strana. Dopo un po' il suo ottimistico attacco dimostrativo fallì miseramente; fu dapprima
costretto a cedermi un pedone, poi anche un cavallo, e infine, accortosi che a proseguire in quel
modo avrebbe perso, sospese la partita e ripose la scacchiera.
Qualche giorno dopo, mio padre mi condusse in una stanzetta attigua al suo studio che per
anni era rimasta chiusa a chiave e in cui soltanto lui poteva entrare. Spinto dalla mia curiosità
infantile avevo tentato spesso, durante le sue assenze, di forzare quella serratura per vedere cosa mai
vi si celasse; e ora che mio padre mi ci portava lui stesso, ero insieme stupefatto e sgomento: forse
mi avrebbe punito per qualche mia malefatta, o proprio per aver tentato più volte di aprire quella
porta che stavo per varcare. Tremavo dunque all'emozione e paura quando, una volta entrati, mi fece
sedere accanto a una scacchiera che, sostenuta da un piedistallo, riluceva, sola, nella penombra della
stanza vuota, e che non assomigliava a nessun'altra scacchiera vista in vita mia. Fu allora che mio
padre mi disse che sarebbe diventato il mio maestro, come a suo tempo suo padre aveva fatto con
lui, e come il bisnonno aveva fatto con suo nonno. Il gioco degli scacchi, mi racconto, si trasmetteva
nella nostra famiglia, di generazione in generazione, da secoli. Si credeva che a dare inizio a questa
catena, con la minaccia di terribili anatemi per chi l'avesse interrotta, fosse stato un nostro avo, un
mercante vissuto agli inizi del Seicento, il quale, incontrato Gioacchino Greco di ritorno da un
viaggio in Oriente, si era giocato e aveva perso agli scacchi un carico di preziosissimi Shiraz.
Secondo quanto tramandatoci, il mio antenato aveva voluto che da allora ogni primogenito della sua
schiatta eccellesse in questo gioco. Non ho mai saputo se si trattasse di una storia inventata, o se al
fondo ci fosse qualcosa di vero. Forse mi si parlava di una perdita materiale perché più accessibile
alla mia mente infantile, ma anche in seguito avrei continuato a sospettare che dietro a quella storia
si celasse dell'altro, che un giorno mio padre mi avrebbe svelato, o che io stesso avrei finito per
scoprire.
Era una ben strana scacchiera quella che avevo davanti. Sembrava provenire da un altro
mondo, o essere un oggetto sacro. Incise su un lato c'erano le ventidue lettere dell'alfabeto ebraico, e
sui rimanenti tre, semicancellate dal tempo, tre scritte che mio padre riteneva di aver decifrato. In
tutte e tre ricorreva la parola  dolore :  Tu non arrecherai dolore ,  Tu fuggirai il dolore e  Tu
imparerai dal dolore . Suonava come un comandamento, o come un'indecifrabile profezia. Mio
padre mi parlò anche degli effetti straordinari che quella scacchiera sapeva produrre: mi disse che
aveva il potere di punire all'istante ogni errore, poiché agiva sull'inconscio accumulo di energia
negativa che ogni attentato all'armonia comporta, e che solo di fronte all'incoscienza di un folle, o al
sovrumano abbandono del genio essa sarebbe stata del tutto inefficace. E proprio sottoponendomi a
quella prova (dalla quale uscii indenne), mio padre dovette avere il primo sospetto che io, di tutta la
somma di esperienze a noi trasmesse dal passato, dovessi essere la punta estrema.
In seguito dovette convincersi che possedevo un vero talento naturale. Potevo permettermi di
sovvertire apparentemente le regole, come fa un giocoliere con la forza di gravità, e di trascinare in
tal modo le partite nelle complicazioni più bizzarre e paradossali; in realtà, amavo il rischio a
oltranza, e godevo soprattutto nell'uscire vittorioso da situazioni apparentemente disperate.
Mio padre, però, fu subito dell'avviso che questa mia esuberanza andasse arginata e
controllata con la disciplina e con uno studio metodico. Naturalmente, quando gli avevo chiesto di
insegnarmi a giocare, mai potevo immaginare a che cosa sarei andato incontro. Finii così per odiare
a volte questo gioco che tanto amavo, perché la pratica e lo studio, così come mi erano imposti,
rappresentavano un'autentica tortura. Il mio maestro si mostrava inflessibile, e mi faceva esercitare
per ore e ore, proprio come ci si esercita su uno strumento musicale, dove la perfezione è sempre un
gradino dalla perfezione. Dio solo sa quanto avrei voluto giocare anche una sola partita per puro
divertimento, come facevano i miei coetanei; quanto avrei voluto rivedere, anche solo per un attimo,
l'aspetto puramente ludico di questo gioco. Ma ciò mi venne negato sin dal primo momento, da
quando mio padre mi disse che da generazioni ormai il culto degli scacchi, ma soprattutto il rigore,
si tramandavano nella nostra famiglia. E mai erano venuti meno.
Fu lui, dunque, il mio primo e unico maestro. Un maestro severo e inflessibile. E solo con
lui potevo giocare. Avevo persino dovuto giurargli che non avrei mai fatto una sola partita con altri
che con lui - neppure con i miei compagni di scuola. Mi portava ancora con sé ad assistere ai tornei,
ma solo a quelli più importanti, e pretendeva da me che mi immedesimassi con l'uno o con l'altro
dei giocatori, e che ne prevedessi le mosse. Era un ottimo esercizio, non lo nego, e raramente mi
capitava di sbagliare. Spesso, però, avrei azzardato dei seguiti più brillanti, ma, ahimè, a muovere i
pezzi sulla scacchiera non ero ancora io.
Fu in quel periodo, tra i nove e i dodici anni, che scoprii di possedere una sorta di facoltà di
chiaroveggenza, che mi permetteva di scorgere in un uomo - in uno scacchista - il grado di
servaggio che lo legava a questo gioco. Mi si presentava come un foro luminoso a forma di stella,
un marchio impresso - avrei detto - nel mezzo della fronte, come una lacerazione, a volte appena
percettibile, ed evidentissima, invece, in quei soggetti che dalla loro passione per gli scacchi erano
totalmente dominati e che, destinati a compiersi o ad annullarsi in essa, la vivevano come
un'espiazione terrena, o una con danna a vita. Questo fenomeno, che durava quanto la fiammella di [ Pobierz całość w formacie PDF ]
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